disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni

In data 24 giugno 2015, è stato pubblicato nella G.U. n. 144/2015 il decreto legislativo intitolato  “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della Legge 10 dicembre 2014, n. 183”.
Nel decreto, che entra in vigore oggi, 25 giugno 2015, viene innanzi tutto ribadito, come già all’art. 1, co. 01, D.Lgs. n. 368/2001, che il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce “la forma comune di rapporto di lavoro” (art. 1); una simile previsione, oltre ad un evidente valore simbolico, potrà assumere particolare rilevanza interpretativa ai fini della qualificazione giuridica di ogni eventuale ipotesi negoziale controversa.
Così come nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 20 febbraio e di cui abbiamo dato ampiamente notizia nelle nostre precedenti pubblicazioni, risulta decisamente incisivo l’intervento (art. 2, co. 1) in materia di collaborazioni autonome a cui, “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato” laddove “si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e la cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. E’ stato eliminato, rispetto alla prima versione dello schema di decreto, il riferimento alle prestazioni “di contenuto ripetitivo”.
Appare evidente che la suddetta previsione, a decorrere dall’inizio del prossimo anno, renderà necessario per i committenti prestare particolare attenzione nel far ricorso ai contratti di collaborazione di durata, specie in fase esecutiva.
Sono state, inoltre, individuate come derogatorie rispetto alla succitata riconduzione nell’alveo del lavoro subordinato le collaborazioni per le quali vengano ad essere definite, in accordi collettivi stipulati dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative a livello nazionale, apposite discipline riguardanti il trattamento economico e normativo in funzione delle specifiche esigenze dei settori produttivi di riferimento; le collaborazioni rese nell’esercizio di professioni per cui è prescritta l’iscrizione ad un albo; le collaborazioni relative all’attività prestata dai componenti di organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; le collaborazioni rese a fini istituzionali in favore di associazioni sportive dilettantistiche affiliate a soggetti giuridici riconosciuti dal CONI. Verranno, altresì, esentate, rispetto alla applicazione della disciplina del lavoro subordinato, le collaborazioni per cui sarà stata certificata dalle Commissioni ex art. 76, D.Lgs. n. 276/2003 l’assenza dei requisiti di cui alla disposizione  succitata.
In quest’ambito, va ancora aggiunto che, con il nuovo decreto, viene a cessare l’esperienza legislativa del contratto di lavoro a progetto; le previsioni di cui agli artt. 61-69, D.Lgs. n. 276/2003 vengono, infatti, abrogate e continueranno ad applicarsi “esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto” (art. 52).
Salvo quanto sopra rilevato, è inoltre possibile ritenere che sia stata mantenuta la possibilità di ricorrere al lavoro autonomo occasionale ex art. 2222 c.c., disposizione questa non abrogata, nonché alle collaborazioni coordinate e continuative che non presentino le caratteristiche di cui all’art. 2, co. 1, del decreto in esame; il Governo ha, infatti, disposto che “Resta salvo quanto disposto dall’articolo 409 del codice di procedura civile” (art. 52).
Come già rilevato in febbraio, il Governo ha, inoltre, completato il proprio disegno di contrasto al lavoro autonomo “coordinato” prevedendo, all’art. 54 dello schema di decreto da ultimo approvato, un percorso di stabilizzazione cui ricorrere a partire dal 1° gennaio 2016.
Tale percorso permetterebbe ai datori di lavoro, a fronte dell’assunzione a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, e di titolari di partita iva, di estinguere gli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi alla eventuale erronea qualificazione dei rapporti di lavoro precedentemente intercorsi.
Per procedere in tal senso, tuttavia, tali datori dovranno sottoscrivere, con i lavoratori interessati, appositi accordi di conciliazione e dovranno, altresì, astenersi dal risolvere i costituendi rapporti di lavoro nei dodici mesi successivi all’assunzione, salvo che non ricorrano ipotesi di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo (art. 51 cit.).

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Occorre adesso brevemente illustrare la norma contenuta all’art. 3, relativa alla regolamentazione della modifica delle mansioni di cui all’art. 2103 del codice civile, in forza della quale viene innanzi tutto legittimata l’assegnazione del lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle da ultimo prestate, purché le stesse siano comunque “riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento” del medesimo lavoratore. Viene, dunque, meno il parametro di equivalenza delle mansioni che, in passato, aveva determinato difficoltà gestionali non irrilevanti per le imprese nella individuazione delle attività da affidare al personale.
L’intervento di revisione dell’art. 2103 c.c., contenuto nel decreto in corso di pubblicazione, legittima, inoltre, l’affidamento al personale di mansioni proprie del livello di inquadramento inferiore, “purché rientranti nella medesima categoria” di inquadramento, in presenza di una modifica (riorganizzazione e/o ristrutturazione) degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del singolo lavoratore.
In tali ipotesi, il mutamento di mansioni potrà essere accompagnato, “ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Ed, inoltre, secondo il nuovo decreto, altre ipotesi di assegnazione a mansioni inferiori potranno essere individuate nei contratti collettivi.
Nelle suddette fattispecie di modifica in pejus delle proprie mansioni, il lavoratore interessato manterrà, tuttavia, il proprio livello di inquadramento e il trattamento retributivo in godimento, perdendo semplicemente gli eventuali emolumenti correlati alle svolgimento di specifiche modalità connesse alla precedente prestazione lavorativa.
Occorre ancora rilevare che la modifica delle mansioni, in tali casi, dovrà essere comunicata al lavoratore per iscritto a pena di nullità. Sempre al suddetto art. 3, inoltre, è stata mantenuta la previsione in ordine alla possibilità di pattuire in sede “protetta” o avanti le Commissioni di certificazione accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione ai fini della tutela dell’occupazione, dell’acquisizione di una diversa professionalità o, ancora, del miglioramento delle condizioni di vita.
Va ancora evidenziata la previsione che consente al lavoratore di acquisire il definitivo inquadramento afferente alle mansioni superiori svolte solo dopo un periodo minimo di assegnazione alle stesse individuato dalla contrattazione collettiva o, in assenza, non inferiore a 6 mesi continuativi, contro i 3 mesi sinora previsti dall’art. 2103 c.c..
Tale effetto, che comunque non avrà luogo ove sussista una diversa volontà del lavoratore interessato, non si verificherà nei casi in cui lo svolgimento di mansioni superiori “abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio”.

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In materia di contratto di lavoro a tempo parziale, il testo del decreto da ultimo approvato non presenta difformità significative rispetto alla prima versione diffusa nel febbraio 2015.
Le previsioni relative a tale tipologia contrattuale contenute agli artt. 4-12 dello stesso decreto appaiono peraltro pienamente nel solco di quanto stabilito dalla precedente disciplina di cui al D.Lgs. n. 61/2000.
Risulta, peraltro, interessante che, ai fini dell’indicazione della durata della prestazione lavorativa del part-timer, possa prendersi in considerazione anche l’eventuale organizzazione del lavoro articolata in turni.
Come già evidenziato in febbraio, viene ridimensionato il ruolo della contrattazione collettiva nell’individuazione delle ipotesi in cui è possibile far ricorso alle cd. clausole elastiche, utili all’inserimento di elementi di flessibilizzazione sia in ordine alla collocazione oraria dell’attività lavorativa dei part-timers sia rispetto all’eventuale incremento del relativo orario di lavoro (art. 6).
Infatti, laddove non si riesca a definire un’intesa collettiva in proposito, tali clausole potranno essere concordate davanti ad una Commissione di certificazione. In tale ipotesi, le modifiche dell’orario di lavoro comporteranno in favore dei lavoratori interessati la fruizione di una maggiorazione della retribuzione oraria pari al 15 per cento; nella medesima disposizione viene, inoltre, previsto che la variazione in aumento dell’orario di lavoro non potrà eccedere il 25 per cento della normale prestazione lavorativa annua.
E’ stato poi ribadito (art. 8) il riconoscimento del diritto alla trasformazione da tempo pieno a tempo parziale non più soltanto in favore dei lavoratori affetti da patologie oncologiche, ma anche dei portatori di “gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti”, ossia quelle che si aggravano progressivamente. Tale diritto, peraltro, viene riconosciuto, oltre che ai lavoratori, anche ai parenti ed ai familiari che li assistono. Si torna, ancora, a segnalare il riconoscimento di una “priorità” nella trasformazione in favore del lavoratore, che ne faccia richiesta, genitore di un figlio convivente di età non superiore a tredici anni o portatore di handicap.
Parimenti, sempre nel solco di una maggiore sensibilità verso le esigenze di conciliazione tra vita e lavoro, viene riconosciuta al lavoratore la possibilità di chiedere, per una sola volta, la trasformazione da full-time in part-time in alternativa alla fruizione del congedo parentale per un periodo corrispondente alla durata di quest’ultimo, “con una riduzione di orario non superiore al 50 per cento”.
Viene, infine, confermato il divieto di licenziamento nei confronti dei lavoratori che rifiutino di “concordare variazioni dell’orario di lavoro”.

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Per quanto attiene al lavoro intermittente, le nuove previsioni (artt. 13-18), come già in febbraio evidenziato,non sembrano introdurre significativi elementi di novità.
In questa sede si evidenzia che, a fronte della eventuale mancata previsione da parte della contrattazione collettiva delle ipotesi di ricorso al lavoro intermittente, vi provvederà il Ministero del Lavoro con apposito decreto.
Incidentalmente, si evidenzia che, proprio nell’ottica di riordino e semplificazione delle tipologie contrattuali, è stata soppressa la disciplina del contratto di lavoro ripartito, cd. Job sharing (art. 55).

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In ordine alla regolamentazione del lavoro a tempo determinato, rispetto a cui già con il D.L. n. 34/2014 (cd. Decreto Poletti) erano state apportate radicali modifiche alle previsioni del D.Lgs. n. 368/2001, lo schema di decreto delegato da ultimo approvato appare intervenire solo per apportare alcuni elementi di correzione (artt. 19-29).
Viene innanzi tutto precisato che il limite di 36 mesi vale sia in caso di un unico contratto di lavoro a termine, che in presenza di una successione di contratti, sebbene in quest’ultimo caso si faccia espresso riferimento non più a mansioni equivalenti, ma a “qualunque mansione” (idem, per i periodi di missione in somministrazione di lavoro), con ciò determinando un ulteriore restringimento del ricorso a tale tipologia contrattuale (art. 19).
Ed inoltre, sempre nell’ipotesi di reiterazione dell’utilizzo di contratti di lavoro a termine nel limite temporale sopra richiamato, viene conservata, richiamando quanto già previsto all’art. 5, co. 4 bis, D.Lgs. n. 368/2001, la possibilità che i contratti collettivi, anche aziendali, individuino ipotesi derogatorie rispetto al suddetto limite di durata triennale.
Nel computo di tale termine, per cui non si terranno in considerazione i periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, rientreranno anche i periodi di missione aventi ad oggetto qualunque tipo di mansione, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazione di lavoro a tempo determinato.
Viene ancora precisato che, in caso di superamento del suddetto limite temporale, il rapporto sarà considerato a tempo indeterminato “dalla data di tale superamento” (art. 19).
Potrà inoltre essere stipulato un ulteriore contratto di lavoro a tempo determinato in sede protetta dalla “durata massima di dodici mesi”, superiore quindi alla durata media ordinariamente presente in molti contratti collettivi o individuato nell’accordo interconfederale del 10 aprile 2008. In caso di violazione della procedura a tal fine prevista o del limite temporale così esteso, la conversione a tempo indeterminato di tale rapporto di lavoro opererà “dalla data della stipulazione” (art. 19).
Nella previsione relativa ai divieti di ricorso all’apposizione del termine al contratto di lavoro è stato ancora stabilito che, a fronte della violazione degli stessi divieti, “il contratto si trasforma a tempo indeterminato” (art. 20).
In materia di proroga del lavoro a termine, mantenendo ferme le maggiori innovazioni introdotte dal citato “Decreto Poletti”, viene eliminato il richiamo alla condizione che tali proroghe “si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato”, in tal modo adeguando tale previsione alla ratio legis conseguente al venir meno delle causali giustificative dell’apposizione del termine.
E’ rimasta poi invariata la previsione, utile per evitare incertezze applicative, per cui, “qualora il numero delle proroghe sia superiore” a cinque nell’arco di trentasei mesi (a prescindere dal numero di contratti sottoscritti), “il contratto si considera a tempo indeterminato dalla data della sesta proroga” (art. 21).
Invariata, rispetto al testo di febbraio 2015, appare inoltre la regolamentazione dei rinnovi e della continuazione di fatto delle prestazioni di lavoro oltre i termini contrattuali individuati (artt. 21 e 22). Come già in precedenza evidenziato, viene però meno il regime sanzionatorio originariamente previsto in caso di “due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità”, rispetto a cui, nel D.Lgs. n. 368/2001, era prevista la più gravosa sanzione della conversione a tempo indeterminato “dalla data di stipulazione del primo contratto”.
Deve ancora sottolinearsi l’introduzione di alcune precisazioni rispetto al limite quantitativo di ricorso al lavoro a termine, come inizialmente introdotto dal suddetto “Decreto Poletti”. Pertanto, fermo il rinvio alle previsioni collettive con cui potranno essere individuati limiti quantitativi differenti, viene confermato il tetto del 20 per cento del numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione; tuttavia, laddove l’attività abbia inizio “nel corso dell’anno”, il suddetto limite percentuale andrà calcolato sul numero di lavoratori a tempo indeterminato “in forza al momento dell’assunzione” (art. 23).
Tra le ipotesi di deroga al rispetto del suddetto limite quantitativo, occorre segnalare l’inserimento delle assunzioni di lavoratori “di età superiore a 50 anni” (prima era di 55 anni) a conferma dell’attenzione governativa per la crisi occupazionale in essere, che colpisce soprattutto i disoccupati “adulti”.
Rispetto alla violazione del suddetto limite quantitativo è stata ribadita, rispetto al testo approvato preliminarmente nello scorso febbraio, l’applicazione di una sanzione amministrativa – peraltro già individuata all’art. 1 del D.L. n. 34/2014 – pari al 20% o al 50% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, a seconda che il numero dei lavoratori assunti in violazione al medesimo non sia o sia superiore ad uno (art. 23).
Va ancora aggiunto, in relazione ai criteri di computo, che il parametro del “numero medio mensile dei lavoratori a tempo determinato”, in cui vengono espressamente richiamati anche i dirigenti, “impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro”, diviene rilevante non solo rispetto alle previsioni di cui all’art. 35 dello Statuto dei Lavoratori, ma “ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro” (art. 27), fornendo così ad essere individuato un parametro interpretativo univoco.
Nessuna particolare novità (art. 28) si rileva sia con riferimento al regime delle decadenze già disciplinato dal cd. Collegato Lavoro (L. n. 183/2010), di modifica dell’art. 6, L. n. 604/1966, ai fini dell’impugnazione dei contratti di lavoro a tempo determinato, sia in relazione alla misura del risarcimento forfetizzato nell’indennità onnicomprensiva di cui all’art. 32, co. 5 e 6, della stessa L. n. 183/2010 (come peraltro reinterpretata dall’articolo 1, co. 13, Legge n. 92 del 2012, cd. Riforma Fornero).
Quest’ultime due previsioni, peraltro, insieme a quella contenuta nell’art. 32, co. 3, lett. a (in materia di impugnazione del contratto di lavoro a termine), del Collegato Lavoro, a fronte dell’inserimento di norme sostanzialmente identiche all’interno del decreto in corso di pubblicazione, verranno abrogate a far data dall’entrata in vigore di quest’ultimo.
Fermo quanto sopra, occorre rilevare che il D.Lgs. n. 368/2001 sarà abrogato (art. 55) non appena entrerà in vigore il decreto recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri, ad eccezione dell’art. 2, in cui, come noto, è individuato un regime speciale per le assunzioni a termine nel trasporto aereo e servizi aeroportuali. Quest’ultima previsione sarà, invece, abrogata a far data dal 1° gennaio 2017.

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Passando adesso alla somministrazione di lavoro, occorre rilevare che, nello schema di decreto, viene in proposito fissato ex lege, laddove risulti assente un’apposita previsione collettiva nazionale, un limite quantitativo di ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato (cd. staff leasing) pari al 20 (era il 10 per cento nella versione del febbraio 2015) per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza all’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula della medesima tipologia contrattuale.
In proposito, ai fini del calcolo di tale percentuale vengono anche in questa sede (art. 31) proposte le disposizioni già sopra richiamate in materia di contratto di lavoro a tempo determinato.
Sempre nell’ambito della suddetta disposizione, il Legislatore delegato ha inteso, inoltre, precisare che “Possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato”.
Anche in questa sede va ribadito che, rispetto alla somministrazione di lavoro con contratto a tempo determinato, nello schema di decreto da ultimo approvato viene eliminato il riferimento all’obbligo di specificare in contratto “i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” che, in passato, dovevano giustificare il ricorso alla medesima tipologia contrattuale e da cui erano derivate notevoli incertezze interpretative, anche in forza degli orientamenti giurisprudenziali non univoci in materia. Allo stesso modo, per il già citato staff leasing viene eliminata l’elencazione delle attività per l’esecuzione delle quali questa tipologia contrattuale poteva essere utilizzata, rendendone in tal modo generalizzata l’applicazione.
Ed ancora in tema di somministrazione a tempo determinato, viene espressamente sancita (art. 34) la non applicazione alla stessa tipologia contrattuale degli artt. 19, 21, 23 e 24 dello schema di decreto in esame, rispettivamente in materia di disciplina dell’apposizione del termine e durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato, di proroga e rinnovi, di continuazione del rapporto oltre la scadenza del termine ed, infine, di numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulabili. Viene, dunque, sganciata la disciplina della somministrazione di lavoro a tempo determinato da alcuni degli aspetti più vincolanti della disciplina del contratto di lavoro a termine.
Con riferimento alla decadenza, è stato espressamente previsto che il termine di cui all’art. 6 della L. n. 604/1966 (60 giorni per l’impugnazione e 180 giorni per il deposito del ricorso) troverà applicazione anche alle ipotesi in cui il lavoratore somministrato interessato richieda la costituzione del rapporto di lavoro in capo al soggetto utilizzatore; in tali casi tale termine inizierà a decorrere dalla data in cui lo stesso lavoratore avrà “cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore” (art. 39).
In caso di accoglimento della suddetta richiesta, troveranno, inoltre, piena applicazione le previsioni sull’indennità onnicomprensiva contenute all’art. 32 del cd. Collegato Lavoro e già sopra richiamate con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato. In tal modo, il Governo ha recepito l’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 13404 del 29 maggio 2013.
Si segnala che, a far data dell’entrata in vigore del nuovo decreto, saranno abrogati (anche perché in parte sostituiti dalle nuove previsioni) gli artt. 18, co. 3 e 3 bis, e da 20 a 28, del D.Lgs. n. 276/2003 (art. 55).

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Anche la disciplina dell’apprendistato (artt. 41-47) è stata interessata dalle emanande previsioni del decreto di riordino delle tipologie contrattuali.
Rispetto alle previsioni allo stato contenute nel D.Lgs. n. 167/2011, lo schema di decreto sembrerebbe finalizzare ulteriormente l’apprendistato di I livello, relativo all’acquisizione della qualifica e del diploma professionale, nonché all’acquisizione del certificato di specializzazione tecnica superiore, alla combinazione della formazione on the job con l’istruzione e la formazione professionale ricevuta presso istituzioni regionali, così da implementare un sistema effettivamente duale.
Tale tipologia di apprendistato coinvolgerà giovani tra i 15 ed i 25 anni e comporterà una durata massima del percorso formativo tra i 3 ed i 4 anni, in relazione al titolo che verrà conseguito al completamento delle attività formative e di istruzione programmate.
Per l’implementazione di tale forma di apprendistato, il Ministero del Lavoro, in caso di mancata adozione dei provvedimenti di competenza delle Regioni, potrà procedere autonomamente con propri atti (art. 43).
Ad una logica similare rispondono le modifiche apportate all’apprendistato per l’alta formazione e ricerca (art. 45), per i giovani tra i 18 ed i 29 anni già in possesso di un titolo di istruzione secondaria superiore o di un diploma professionale, che, al suo completamento, permetterà agli stessi giovani coinvolti di conseguire un titolo di studio superiore (diploma di laurea, dottorato di ricerca) o il praticantato relativo ad una delle professioni liberali che prevedono l’iscrizione ad un albo o, ancora, un diploma rilasciato da un istituto tecnico superiore.
Per entrambe tali tipologie di apprendistato è stato poi individuato un limite massimo di durata della formazione esterna all’azienda. Va ancora rilevato che le aziende non saranno tenute ad erogare la retribuzione, salvo diverse previsioni collettive, in favore degli apprendisti per le ore di frequenza dei corsi di formazione esterna presso gli enti preposti, mentre dovranno retribuire in misura pari al 10 per cento del trattamento retributivo ordinariamente dovuto le ore di formazione prestate in azienda.
Appare possibile ritenere che non siano state introdotte, anche nello schema di decreto approvato lo scorso 11 giugno, significative modifiche alla disciplina dell’apprendistato professionalizzante (art. 44). Quest’ultimo, peraltro, costituisce l’unica forma di apprendistato per cui i datori di lavoro, con almeno cinquanta dipendenti, potranno assumere nuovi apprendisti solo laddove abbiano confermato, a tempo indeterminato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, almeno il 20 per cento degli apprendisti loro dipendenti (art. 42).
Ed ancora in ordine alla disciplina dell’apprendistato professionalizzante può rilevarsi che la stessa tipologia potrà essere utilizzata anche per assumere, “senza limiti di età”, lavoratori beneficiari di indennità di mobilità (come già con il D.Lgs. n. 167/2011) e lavoratori beneficiari di un trattamento di disoccupazione (art. 47).
Va ancora evidenziato che, con le nuove previsioni normative (art. 42), verrà estesa in termini generali, per tutte e tre le tipologie di apprendistato, l’applicazione delle sanzioni previste in caso di licenziamento ingiustificato; inoltre, con riferimento all’apprendistato per l’acquisizione della qualifica, del diploma e della specializzazione professionale, potrà costituire “giustificato motivo di licenziamento anche il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi”.
Deve, infine, tornare ad evidenziarsi come, per l’apprendistato, anche dal complessivo impianto normativo dello schema di decreto da ultimo approvato, risulti ancora particolarmente rilevante il ruolo delle Regioni; tale aspetto, pur considerando quanto previsto dal titolo V della Costituzione specie in ordine alla regolamentazione dei profili formativi, potrebbe continuare a costituire un fattore disincentivante rispetto al ricorso a tale tipologia contrattuale, soprattutto in un contesto, come l’attuale, in cui diviene particolarmente appetibile, anche dal punto di visto contributivo, il ricorso al lavoro a tempo indeterminato.

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Brevi note possono essere altresì formulate rispetto agli interventi sulla disciplina del lavoro accessorio, attualmente disciplinato agli artt. 70-73 del D.Lgs. n. 276/2003 (e che verranno abrogati, non appena il decreto in esame verrà pubblicato).
Nelle nuove previsioni (artt. 48-50), in particolare, viene incrementato da 5 a 7 mila euro il limite massimo di compenso che uno stesso soggetto può complessivamente percepire da più committenti nel corso di ciascun anno civile (non più solare); rimane fermo, invece, a 2 mila euro il compenso che lo stesso soggetto potrà percepire, nel medesimo periodo, da ciascun singolo committente, imprenditore o professionista.
Risulta ancora da segnalare che è stata attribuita natura permanente alla previsione, sperimentale per gli anni 2013 e 2014, in forza della quale i percettori di strumenti di sostegno al reddito possono svolgere nel corso di ciascun anno civile prestazioni di lavoro accessorio – adesso nel limite complessivo di 3 mila euro complessivo nell’anno civile – senza incorrere in decadenze ed incompatibilità.
Viene, infine, espressamente disposto che non si potrà ricorrere al lavoro accessorio “nell’ambito della esecuzione di appalti di opere e servizi”, salvo non ricorrano specifiche ipotesi derogatorie individuate in un provvedimento ministeriale da emanarsi entro 6 mesi dall’entrata in vigore del decreto in esame.

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All’art. 51 è stata inserita una norma di interpretazione autentica in forza della quale ogni richiamo ai contratti collettivi contenuto nello schema di decreto è da intendersi riferito, salva diversa previsione, ai “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.

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Si segnala, infine, che, all’art. 53, sono state individuate disposizioni finalizzate al definitivo superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro. E’ stato comunque previsto, in termini di regime transitorio, che i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro in essere avranno efficacia sino alla data di cessazione prevista nei relativi accordi.