Il contratto di lavoro a tutele crescenti – Uno strumento alternativo al contratto a termine?

POLETTI: SCIVOLO PER ESODATI, ONERI BASSI SUGLI OVER 50

La nuova frontiera della flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro italiano sembra essere il cd. contratto a tutele progressive o crescenti. Con questa espressione si allude ad un contratto di lavoro che, nella sua prima fase di esecuzione o – secondo l’impostazione che sembra prevalere in queste ore – per sempre, sia pur limitatamente ai nuovi assunti, non preveda l’applicazione delle norme in materia di reintegrazione nel posto di lavoro, tuttora contenute nell’art. 18 della Legge n. 300/1970.

Il dibattito politico-sindacale ha ripreso vigore a seguito dell’approvazione di un emendamento al disegno di legge delega (il n. 1428/S) per la nuova riforma del lavoro che il Governo Renzi sta sostenendo in Parlamento (il cd. Jobs act), approvato in Commissione Lavoro del Senato lo scorso 17 settembre. Si dimentica, peraltro, che una anticipazione di tale iniziativa legislativa era stata fatta in sede di conversione del Decreto Poletti, al quale era stato aggiunto un passaggio (all’art. 1, comma 1) ove si annunciava l’adozione di un “testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente”, per far fronte, unitamente agli interventi previsti da quel provvedimento, alla “perdurante crisi occupazionale” e alla “incertezza dell’attuale quadro economico nel quale le imprese devono operare”.

L’emendamento, nel passaggio qui di interesse, è lapidario (allude solo alla introduzione di un contratto di lavoro a “tutele crescenti”) e non lascia trapelare nulla delle intenzioni del Governo. Neppure le dichiarazioni del Presidente della Commissione Lavoro, Sen. Sacconi, da sempre sostenitore della necessità di affrancarsi dal rigido modello statutario, consentono, al di là di qualche spunto, di intravvedere il possibile esito della elaborazione normativa che, nella sua qualità di legislatore delegato, spetterà al Governo, una volta approvata la delega. Ciò detto, una qualche ipotesi può formularsi, sulla scorta della elaborazione della dottrina economica e giuslavoristica degli ultimi anni, sfociata anche in iniziative parlamentari, la più nota delle quali è quella promossa dal Sen. Ichino nel 2009 (il disegno di legge reca il numero 1481/S e fu presentato nella scorsa legislatura).

L’esigenza che si tende a soddisfare con il contratto proposto è, come detto in apertura, quella di consentire al datore di lavoro, almeno nella prima fase di esecuzione del rapporto, di recedere dal rapporto di lavoro, non tanto senza giustificazione, quanto piuttosto senza incorrere nel rischio della reintegrazione del lavoratore licenziato a seguito di un licenziamento intimato per una ragione ritenuta insussistente, rectius, illegittima, dal giudice. La progressività delle tutele sembra alludere alla previsione secondo cui, decorso un ragionevole periodo di tempo, il lavoratore, inizialmente privo della stabilità garantita al suo posto di lavoro dalla cd. tutela reale discendente dall’applicazione giudiziale dell’art. 18 dello Statuto, ne possa successivamente beneficiare.

Immagine di repertorio: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoLavoro/2014-09-22/il-contratto-lavoro-tutele-crescenti--strumento-alternativo-contratto-termine-155632.php

Dietro questo meccanismo di differimento della piena protezione garantita al lavoratore dalle disposizioni statutarie vi è la diffusa opinione secondo cui le imprese sarebbero maggiormente incentivate ad assumere, se le rigide protezioni assicurate dalle norme dello Statuto fossero temporaneamente sospese o, come chiede un fronte sempre più ampio di opinione pubblica e parti politiche, del tutto eliminate, per lasciare spazio ad una tutela esclusivamente risarcitoria del licenziamento illegittimamente intimato.
Chi frequenta e conosce gli imprenditori sa quanto infondata sia questa opinione (che, se hanno bisogno di apporto di lavoro, assumono, sfruttando semmai i contratti di flessibilità), mentre avrebbe più senso abolire l’istituto della reintegrazione nel posto di lavoro per l’incertezza che esso causa all’impresa nonché per i costi, risarcitori, organizzativi (si tende a ignorare, ad esempio, quanto devastante sia, per l’equilibrio dell’impresa, il reingresso forzoso di un lavoratore estromesso, sia pure a torto, mesi o anni prima), legali, che ne conseguono.

Una seconda opzione, più interessante, ma ancora insoddisfacente (per la sua parzialità), è quella che prevede una completa disapplicazione dell’istituto della reintegrazione per i nuovi assunti, con la previsione, in caso di recesso del datore di lavoro non sorretto da giustificazione, di una indennità risarcitoria crescente in funzione degli anni di anzianità aziendale, mentre la reintegrazione resterebbe ferma nei casi di licenziamento discriminatorio, così come accade diffusamente in tutti i principali Paesi industrializzati.
Ciò detto, sembra qui utile sottolineare come l’istituto su cui si sta incentrando il dibattito politico-sindacale in queste ore sia radicalmente diverso dal contratto a tempo determinato e non preveda alcun fattore di sostituzione di esso.

Il contratto a termine ha lo scopo, secondo la causa che ha disegnato per esso il legislatore, sia nella sua originaria formulazione normativa che nell’attuale, di consentire al datore di lavoro di soddisfare esigenze organizzative di media o breve durata, acquisendo professionalità di cui non dispone normalmente nell’ambito del novero dei suoi dipendenti. Peraltro, la disciplina codicistica, ancora in vigore, prevede per il lavoro a termine una stabilità che non è propria neppure del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, dato che dal contratto a termine non si può recedere prima della sua scadenza se non per giusta causa, ossia per una ragione talmente grave da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.

Nell’esperienza italiana il contratto a tempo determinato è divenuto uno strumento dalle caratterizzazioni fortemente atipiche, dato che è stato utilizzato, oltre che per le sue finalità ordinamentali, come lungo periodo di prova o, altrettanto spesso, per evitare assunzioni a tempo indeterminato, almeno in una prima fase, ad esempio nelle fasi di avvio di nuove attività di impresa.

Se il contratto a tutele progressive dovesse sfociare in uno che prevede l’applicabilità della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto, pur nella sua attuale, confusa, formulazione, esso – ad opinione di chi scrive – è destinato a non trovare diffuso riscontro presso le imprese, dotate – dopo l’approvazione del cd. Decreto Poletti – di una doppia validissima e duttile alternativa. Sia il contratto a termine che la somministrazione di lavoro (e i sottostanti rapporti di lavoro) possono essere stipulati senza l’indicazione nel contratto dei motivi di ricorso, la cui errata, strumentale, difettosa formulazione è stata per decenni causa di un gigantesco e strumentale contenzioso.

Inoltre, sia l’uno che l’altro strumento possono contare su ampie possibilità di proroga, così che il datore di lavoro sia messo in condizione di poter utilizzare i due strumenti contrattuali in funzione delle sue reali esigenze organizzative e produttive, non avendo, al termine dei trentasei mesi di durata massima dei rapporti di lavoro, neppure l’obbligo di assumere né dovendo subire alcun meccanismo di ampliamento delle tutele contro l’eventuale licenziamento illegittimo.

Insomma, ancora a giudizio di chi scrive, il contratto a tutele progressive o crescenti rappresenta l’ennesima ipocrisia del legislatore italiano, più portato a studiare complessi e inapplicabili istituti giuridici di compromesso che non ad affrontare con coraggio i veri nodi del diritto del lavoro. La reintegrazione, ad esclusione dei casi in cui il licenziamento sia nullo per ragioni discriminatorie, è un rudere da demolire definitivamente, subito e per tutti i lavoratori dipendenti.

Natura non facit saltus. Il legislatore lo può ben fare.

Potete trovare il seguente articolo anche su Diritto 24, il portale giuridico de Il Sole 24 Ore, dove è stato pubblicato all’indirizzo web riportato di seguito:

Prof. Alessandro Brignone