Riordino delle tipologie contrattuali

Come premesso, all’esito della riunione dello scorso 20 febbraio, il Consiglio dei Ministri, in attuazione di parte della Legge delega n. 183 del 10 dicembre 2014, ha altresì approvato lo schema di decreto legislativo di semplificazione e riordino delle tipologie contrattuali di assunzione, nonché di revisione della disciplina delle mansioni, che costituisce un altro importante tassello nel progetto di riforma del mercato del lavoro.
Tale decreto, una volta in vigore, comporterà un rilevante ridimensionamento della regolamentazione delle tipologie contrattuali che rimarranno utilizzabili per le aziende, oltre che l’abrogazione di alcune tipologie scarsamente utilizzate o non ritenute più necessarie all’esito delle valutazioni effettuate dall’attuale Governo.
Di seguito si riportano gli elementi di maggiori rilevanza presenti nelle previsioni del suddetto schema di decreto.

LAVORO A TEMPO PARZIALE
Procedendo secondo l’ordine nel decreto in esame, la prima tipologia contrattuale disciplinata è il contratto di lavoro a tempo parziale, il cui testo normativo di riferimento è sinora stato il D.Lgs. n. 61/2000, di recepimento della direttiva comunitaria n. 1997/81/CE; quest’ultimo decreto sarà abrogato non appena entrerà in vigore il decreto recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri.
Va preliminarmente rilevato che le previsioni in materia contenute nel suddetto schema di decreto appaiono nel solco di quanto stabilito dalla precedente disciplina, salvi alcuni aggiustamenti.
In primis, occorre osservare che il ruolo della contrattazione collettiva nell’individuazione delle ipotesi in cui diviene possibile far ricorso alle cd. clausole elastiche e flessibili, utili all’inserimento di elementi di flessibilizzazione nella collocazione oraria dell’attività lavorativa dei part-timers e nella gestione dell’orario di lavoro, diviene cedevole (art. 4). Infatti, laddove non si riesca a definire un’intesa collettiva in sede sindacale, tali clausole potranno essere concordate davanti ad una commissione di certificazione di cui all’art. 76, D.Lgs.n n. 276/2003. In tale ipotesi, le modifiche dell’orario di lavoro comporteranno in favore dei lavoratori interessati la fruizione di una maggiorazione della retribuzione oraria pari al 15 per cento; nella medesima disposizione viene, inoltre, previsto che la variazione in aumento dell’orario di lavoro non potrà eccedere il 25 per cento della normale prestazione lavorativa annua.
Allo stesso modo verrà retribuito, nel part-time orizzontale, il lavoro supplementare laddove il contratto collettivo applicato non contenga una specifica disposizione in tema; peraltro, in una simile evenienza, potranno essere svolte prestazioni di lavoro supplementare in misura non superiore al 15 per cento delle ore di lavoro settimanali concordate. In caso di assenza di previsione collettiva, rimane, tuttavia, la necessità del previo consenso del lavoratore rispetto alla prestazione di lavoro supplementare.
Va ancora osservato come il Governo abbia eliminato, nel rinvio alla contrattazione collettiva in materia di lavoro supplementare, la facoltà di individuare anche le causali relative a questa forma di lavoro aggiuntivo, rendendo in tal modo possibile un ricorso più flessibile all’istituto in esame.
E’ stato poi previsto (art. 5) il riconoscimento del diritto alla trasformazione da tempo pieno a tempo parziale non più soltanto in favore dei lavoratori affetti da patologie oncologiche, ma anche dei portatori di “gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti”, ossia quelle si aggravano progressivamente. Tale diritto, peraltro, viene riconosciuto, oltre che ai lavoratori, anche ai parenti ed ai familiari che li assistono.
Da segnalare, inoltre, il riconoscimento di una “priorità” nella trasformazione in favore del lavoratore, che ne faccia richiesta, genitore di un figlio convivente di età non superiore a tredici anni o portatore di handicap. Parimenti, sempre nel solco di una maggiore sensibilità verso le esigenze di conciliazione tra vita e lavoro, viene riconosciuta al lavoratore la possibilità di chiedere, per una sola volta, la trasformazione da full-time in part-time in alternativa alla fruizione del congedo parentale per un periodo corrispondente alla durata di quest’ultimo, “con una riduzione di orario non superiore al 50 per cento”.

LAVORO INTERMITTENTE
In relazione al lavoro intermittente (con il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o, appunto,  intermittente secondo le esigenze individuate dalla contrattazione collettiva ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno), che oggi trova ancora la propria disciplina agli artt. 33-40 del D.Lgs. n. 276/2003, le nuove previsioni (artt. 11-16) non sembrano introdurre significativi elementi di novità.
In questa sede si intende semplicemente evidenziare che, a fronte della eventuale mancata previsione da parte della contrattazione collettiva delle ipotesi di ricorso al lavoro intermittente, vi provvederà il Ministero del Lavoro con un decreto, soluzione questa che, ai sensi dell’art. 40, D.Lgs. n. 276/2003, veniva, invece, individuata solo “in via provvisoria”, in forza di una ratio legis che delegava soprattutto alle parti sociali, in quanto maggiormente consapevoli delle peculiarità dei singoli settori produttivi, l’individuazione delle attività più indicate per lo svolgimento del lavoro intermittente.
Nell’ottica di riordino e semplificazione delle tipologie contrattuali, occorre inoltre incidentalmente evidenziare la previsione relativa alla soppressione del contratto di lavoro ripartito, cd. Job sharing (art. 46).

LAVORO A TEMPO DETERMINATO
Rispetto alla regolamentazione del lavoro a tempo determinato, rispetto a cui già con il D.L. n. 34/2014 (cd. Decreto Poletti) erano state apportate radicali modifiche alle previsioni del D.Lgs. n. 368/2001, lo schema di decreto delegato appare intervenire solo per apportare alcuni elementi di correzione (artt. 17-27).
Viene innanzi tutto precisato che il limite di 36 mesi vale sia in caso di un unico contratto di lavoro a termine, che in presenza di una successione di contratti, sebbene in quest’ultimo caso si faccia espresso riferimento alle mansioni equivalenti. Il richiamo all’equivalenza delle mansioni, peraltro, a fronte del venir meno della causalità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro potrebbe finire per alimentare perplessità interpretative di cui gli operatori farebbero volentieri a meno.
Ed inoltre, sempre nell’ipotesi di reiterazione dell’utilizzo di contratti di lavoro a termine nel limite temporale sopra richiamato, viene conservata, richiamando quanto già previsto all’art. 5, co. 4 bis, D.Lgs. n. 368/2001, la possibilità che le parti sociali comparativamente più rappresentative a livello nazionale procedano ad individuare accordi collettivi, anche a livello aziendale, per derogare al suddetto limite di durata triennale. Nel computo di tale termine, per cui non si terranno in considerazione i periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, rientreranno anche i periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazione di lavoro a tempo determinato.
Viene ancora precisato che, in caso di superamento del suddetto limite temporale, il rapporto sarà considerato a tempo indeterminato “dalla data di tale superamento” (art. 17). Va rivelato come, analogamente rispetto all’attuale testo dell’art. 5, co. 4 bis, succitato, le parti potranno stipulare un ulteriore contratto di lavoro a tempo determinato in sede protetta dalla “durata massima di dodici mesi”, superiore quindi alla durata media ordinariamente presente in molti contratti collettivi o individuato nell’accordo interconfederale del 10 aprile 2008. In caso di violazione della procedura a tal fine prevista o del limite temporale così esteso, la conversione a tempo indeterminato di tale rapporto di lavoro opererà “dalla data della stipula”(art. 17).
In materia di proroga del lavoro a termine, mantenendo ferme le maggiori innovazioni introdotte dal suddetto Decreto Poletti, viene eliminato il richiamo alla condizione che tali proroghe “si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato”, introducendo in tal modo un ulteriore elemento di flessibilizzazione.
Viene inoltre precisato, così da evitare incertezze in sede applicativa, che “qualora il numero delle proroghe sia superiore” a cinque nell’arco di trentasei mesi (a prescindere dal numero di contratti sottoscritti), “il contratto si considera a tempo indeterminato dalla data della sesta proroga” (art. 19).
Non si rilevano particolari modifiche nella disciplina dei rinnovi e della continuazione di fatto delle prestazioni di lavoro oltre i termini contrattuali individuati. Viene meno però il regime sanzionatorio originariamente previsto in caso di “due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità”, per cui era prevista la più gravosa sanzione della conversione a tempo indeterminato “dalla data di stipulazione del primo contratto”.
Deva ancora sottolinearsi l’introduzione di alcune precisazioni rispetto al limite quantitativo di ricorso al lavoro a termine, come inizialmente introdotto dal suddetto Decreto Poletti. Pertanto, fermo il rinvio alle previsioni collettive con cui potranno essere individuati limiti quantitativi differenti, viene confermato il tetto del 20 per cento del numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione; tuttavia, laddove l’attività abbia inizio “nel corso dell’anno”, il suddetto limite percentuale andrà calcolato sul numero di lavoratori a tempo indeterminato “in forza al momento dell’assunzione” (art. 21).
Utile, inoltre, ai fini del corretto computo del medesimo limite percentuale, appare il chiarimento per cui, qualora la stima percentuale di personale a tempo indeterminato sia eguale o superiore a 0,5, si procederà “con un arrotondamento del decimale all’unità superiore”.
Rispetto alla violazione del suddetto limite quantitativo viene ancora confermata la sanzione di carattere amministrativo già individuata dal D.L. n. 34/2014, con la precisazione, utile a dipanare alcune perplessità insorte, che in tali ipotesi resta “esclusa la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato” (art. 21).
Con riferimento alla formazione, appare interessante rilevare che la previsione in proposito contenuta nello schema di decreto legislativo (art. 24) non riporta la norma prescrittiva presente al primo comma dell’attuale art. 7, D.Lgs. n.368/2001, secondo cui “Il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato dovrà ricevere una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro”, limitandosi a rinviare alla contrattazione collettiva la regolamentazione in ordine alle modalità ed agli strumenti per impartire ai lavoratori una formazione adeguata.
In ordine ai criteri di computo, il parametro del “numero medio mensile dei lavoratori a tempo determinato”, in cui vengono espressamente richiamati anche i dirigenti, “impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro” diviene rilevante non solo rispetto alle previsioni di cui all’art. 35 dello Statuto dei Lavoratori, ma “ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro” (art. 25), in tal modo fornendo un parametro interpretativo univoco.
Nessuna particolare novità (art. 26) si rileva sia con riferimento al regime delle decadenze già disciplinato dal cd. Collegato Lavoro (L. n. 183/2010), di modifica dell’art. 6, L. n. 604/1966, ai fini dell’impugnazione dei contratti di lavoro a tempo determinato, sia in relazione alla misura del risarcimento forfetizzato nell’indennità onnicomprensiva di cui all’art. 32, co. 5 e 6, della stessa L. n. 183/2010 (come peraltro reinterpretata dall’articolo 1, co. 13, Legge n. 92 del 2012, cd. Riforma Fornero). Quest’ultime due previsioni, peraltro, insieme a quella contenuta nell’art. 32, co. 3, lett. a) (in materia di impugnazione del contratto di lavoro a termine), del Collegato Lavoro, a fronte dell’inserimento di norme sostanzialmente identiche all’interno del nuovo decreto, verranno abrogate a far data dall’entrata in vigore dello stesso decreto.
Fermo quanto sopra, occorre rilevare che il D.Lgs. n. 368/2001 sarà abrogato(art. 46) non appena entrerà in vigore il decreto recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri, ad eccezione dell’art. 2, in cui è individuato un regime speciale per le assunzioni a termine nel trasporto aereo e servizi aeroportuali, nonché nel settore delle poste; tale regime rimarrà, infatti, in vigore per ulteriori 18 mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore del nuovo decreto, così da permettere una riorganizzazione della prassi organizzativa sinora invalsa nei medesimi settori.

SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO
In materia di somministrazione di lavoro, viene innanzi tutto fissato ex lege, laddove risulti assente un’apposita previsione collettiva nazionale, un limite quantitativo di ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato (cd. staff leasing) pari al 10 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza all’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del medesimo contratto. In proposito, ai fini del calcolo di tale percentuale vengono anche in questa sede (art. 29) proposte le disposizioni già sopra richiamate in materia di contratto di lavoro a tempo determinato.
Rispetto, inoltre, alla somministrazione di lavoro con contratto a tempo determinato, nello schema di decreto viene eliminato il riferimento all’obbligo di specificare in contratto “i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” che, in passato, dovevano giustificare il ricorso alla medesima tipologia contrattuale e da cui erano derivate notevoli incertezze interpretative, anche in forza degli orientamenti giurisprudenziali non univoci in materia. Allo stesso modo, per il già citato staff leasing viene eliminata l’elencazione delle attività per l’esecuzione della quali questa tipologia contrattuale poteva essere utilizzata, rendendone in tal modo generalizzata l’applicazione.
Sempre in tema di somministrazione a tempo determinato, viene espressamente sancita (art. 32) la non applicazione alla stessa tipologia contrattuale degli artt. 17, 19, 20 e 21 dello schema di decreto in esame, rispettivamente in materia di disciplina dell’apposizione del termine e durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato, di proroga e rinnovi, di continuazione del rapporto oltre la scadenza del termine ed, infine, di numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulabili. Viene, dunque, sganciata la disciplina della somministrazione di lavoro a tempo determinato da alcuni degli aspetti più vincolanti della disciplina del contratto di lavoro a termine.
Con riferimento alla disciplina della decadenza, è stato espressamente previsto che il termine di cui all’art. 6 della L. n. 604/1966 troverà applicazione anche alle ipotesi in cui il lavoratore interessato richieda la costituzione del rapporto di lavoro in capo al soggetto utilizzatore; in tali casi tale termine inizierà a decorrere dalla data in cui lo stesso lavoratore avrà “cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore” (art. 37). In caso di accoglimento della suddetta richiesta, troveranno, inoltre, piena applicazione le previsioni sull’indennità onnicomprensiva contenute all’art. 32 del cd. Collegato Lavoro e già sopra richiamate con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato. In tal modo il Governo ha recepito l’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. n. 13404 del 29 maggio 2013.
Per il resto, le nuove norme cancellano diverse previsioni del D.Lgs. n. 276/2003 che garantivano maggiore tutela al lavoratore somministrato. Tra queste, specie per gli aspetti retributivi, si segnala l’eliminazione dell’obbligo dell’utilizzatore di comunicare al somministratore i trattamenti retributivi applicabili ai lavoratori comparabili (art 21, co. 1, lett. k), particolarmente efficace a supportare l’implementazione del principio di non discriminazione di cui all’art. 23, co. 1, del suddetto decreto del 2003, oggi parimenti confermato, seppur senza un simile sostegno informativo, dall’art. 33, co. 1, dello schema di riordino delle tipologie contrattuali.
Si segnala che, a far data dell’entrata in vigore del nuovo decreto, saranno abrogati (anche perché sostituiti – salvo che per l’art. 28 relativo alla soppressa somministrazione fraudolenta – dalle nuove previsioni) gli artt. 18, co. 3 e 3 bis, e da 20 a 28, del D.Lgs. n. 276/2003 (art. 46).

APPRENDISTATO
Anche la disciplina dell’apprendistato, in forza delle emanande previsioni del decreto di riordino delle tipologie contrattuali, verrà presto modificata.
Rispetto alle previsioni allo stato contenute nel D.Lgs. n. 167/2011, il disegno del Governo sembrerebbe prevedere soprattutto un’estensione dell’apprendistato di I livello, relativo all’acquisizione del diploma di scuola superiore, anche all’acquisizione della qualifica e specializzazione professionale, così da abbinare strettamente la formazione on the job all’istruzione e formazione professionale ricevuta presso le istituzioni regionali, in attuazione del cd. sistema duale.
Tale tipologia di apprendistato coinvolgerà giovani tra i 15 ed i 25 anni e comporterà una durata massima del percorso formativo tra i 3 ed i 4 anni, in relazione al titolo che verrà conseguito al completamento delle attività formative e di istruzione programmate.
Per l’implementazione di tale forma di apprendistato il Ministero del Lavoro, in caso di mancata adozione dei provvedimenti di competenza delle Regioni, potrà procedere autonomamente con propri atti (art. 41).
Ad una logica similare rispondono le modifiche apportate all’apprendistato per l’alta formazione e ricerca (per i giovani tra i 18 ed i 29 anni già in possesso di un titolo di istruzione secondaria superiore o di un diploma professionale) che, al suo completamento, permetterà ai soggetti coinvolti di conseguire un titolo di studio superiore (diploma di laurea, dottorato di ricerca) o il praticantato relativo ad una delle professioni liberali che prevedono l’iscrizione ad un albo o, ancora, un diploma rilasciato da un istituto tecnico superiore (art. 43).
Per entrambe tali tipologie di apprendistato è stato inoltre individuato un limite massimo di durata della formazione esterna all’azienda. Va ancora rilevato che le aziende non saranno tenute ad erogare la retribuzione, salvo diverse previsioni collettive, in favore degli apprendisti per le ore di frequenza dei corsi di formazione esterna presso gli enti preposti, mentre dovranno retribuire in misura pari al 10 per cento del trattamento retributivo ordinariamente dovuto le ore di formazione prestate in azienda.
Non si registrano significative modifiche alla disciplina dell’apprendistato professionalizzante (art. 42). Quest’ultimo, peraltro, costituisce l’unica forma di apprendistato per cui i datori, con almeno cinquanta dipendenti, potranno assumere nuovi apprendisti solo laddove abbiano confermato, a tempo indeterminato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, almeno il 20 per cento degli apprendisti loro dipendenti.
Sempre in merito all’apprendistato professionalizzante può ancora rilevarsi che lo stesso potrà essere utilizzato anche per assumere, “senza limiti di età”, lavoratori beneficiari di indennità di mobilità (come già con il D.Lgs. n. 167/2011) e lavoratori beneficiari di un trattamento di disoccupazione (art. 45).
Va ancora evidenziato che, con le nuove previsioni normative (art. 40), verrà estesa in termini generali, per tutte e tre le tipologie di apprendistato, l’applicazione delle sanzioni previste in caso di licenziamento ingiustificato; inoltre, con riferimento all’apprendistato per l’acquisizione della qualifica, del diploma e della specializzazione professionale potrà costituire “giustificato motivo di licenziamento anche il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi”.
Occorre, infine, evidenziare come, per l’apprendistato, dal complessivo impianto normativo dello schema di decreto risulti particolarmente valorizzato il ruolo delle Regioni; tale aspetto, pur considerando quanto previsto dal titolo V della Costituzione specie in ordine alla regolamentazione dei profili formativi, potrebbe costituire un fattore disincentivante rispetto al ricorso a tale tipologia contrattuale, soprattutto in un contesto, come l’attuale, in cui diviene particolarmente appetibile, anche dal punto di visto contributivo, il ricorso al lavoro a tempo indeterminato.

RICONDUZIONE AL LAVORO SUBORDINATO
Lo schema di decreto contiene ancora previsioni particolarmente incisive sulla disciplina delle collaborazioni autonome sinora applicata.
Viene, infatti, ad essere previsto (art. 47, co. 1) che, “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Seppur la suddetta disposizione non lo preveda espressamente, appare evidente che, in presenza dei suddetti presupposti (e tra questi, in particolare, la natura continuativa e ripetitiva delle prestazioni del collaboratore), a far data dall’inizio del prossimo anno non si potrà più procedere alla stipula di contratti di collaborazione di durata, anche con soggetti titolari di partita iva. Per quanto concerne il lavoro a progetto, inoltre, tale conclusione è espressamente contenuta nel successivo art. 49, in forza del quale le disposizioni di cui agli artt. 61-69 bis, D.Lgs. n. 276/2003, rimarranno in vigore “esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
Il Governo ha individuato apposite deroghe rispetto alla sostanziale abolizione del lavoro autonomo coordinato, tra cui le collaborazioni rese nell’esercizio di professioni per cui è prescritto l’iscrizione ad un albo; le attività prestate dai componenti di organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; le prestazioni rese a fini istituzionali in favore di associazioni sportive dilettantistiche affiliate a soggetti giuridici riconosciuti dal CONI; ed, infine, le collaborazioni per le quali vengano ad essere individuate in accordi collettivi stipulati dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative a livello nazionale apposite discipline in funzione delle specifiche esigenze dei settori produttivi di riferimento.
Salvo quanto sopra, dovrebbe infine potersi assumere il mantenimento del ricorso al lavoro autonomo occasionale ex art. 2222 c.c.; si nutrono, invece, fondate perplessità che, in forza di quanto previsto dal succitato comma primo dell’art. 47, si possa ancora fare ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative, nonostante il Governo, all’art. 49, co. 2, dello schema, abbia previsto che “Resta salvo quanto disposto dall’articolo 409 del codice di procedura civile”.
Astrattamente, infatti, potrebbe ancora farsi ricorso alle vecchie co.co.co. nei casi in cui il collaboratore sia chiamato a svolgere prestazioni non a contenuto ripetitivo (come, ad esempio, quelle intellettuali) o laddove quest’ultimo organizzi autonomamente, quanto a tempo e luogo, la sua attività in favore del committente. Tuttavia, il consolidato e restrittivo orientamento giurisprudenziale sulla qualificazione dei rapporti di lavoro, che rende già adesso particolarmente rischioso il ricorso a simili collaborazioni, laddove riletto alla luce delle disposizioni di legge che potrebbero essere presto introdotte, induce a sconsigliarne l’utilizzo, salvo che in presenza delle fattispecie derogatorie espressamente richiamate, tra cui, peraltro, non è più presente quella prevista nell’abrogando art. 61, co. 3, del D.Lgs. n. 276/2003 in favore dei titolari di pensione di vecchiaia.
Il Governo ha, inoltre, completato il proprio disegno di contrasto al lavoro autonomo coordinato prevedendo, all’art. 48 dello schema di decreto, un percorso di stabilizzazione, da definire entro la fine del 2015. Tale percorso permetterebbe ai datori di lavoro, a fronte dell’assunzione a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, e di titolari di partita iva, di estinguere gli illeciti previsti dalle disposizioni in materia di obblighi contributivi, assicurativi e fiscali connessi alla eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro pregresso. Per procedere in tal senso, tuttavia, tali datori dovranno sottoscrivere, con i lavoratori interessati, appositi accordi di conciliazione e dovranno, altresì, astenersi dal risolvere i costituendi rapporti di lavoro nei dodici mesi successivi all’assunzione, salvo che non ricorrano ipotesi di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo.
Incidentalmente, occorre aggiungere che all’art. 50 sono state poi individuate alcune disposizioni finalizzate al superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro. In proposito si segnala in particolare l’aggiunta al primo comma dell’art. 2549 c.c. delle parole “di capitale”, così da escludere, senza alcun possibile equivoco ermeneutico, che il “corrispettivo di un determinato apporto” non possa essere di lavoro. In tal senso devono essere lette anche le previsioni dello suddetto schema di decreto che abrogano i commi secondo e terzo del succitato art. 2549 e l’art. 1, co. 30, della cd. Riforma Fornero (art. 46). E’ stato comunque previsto, in termini di regime transitorio, che le associazioni in partecipazione con apporto di lavoro in essere avranno efficacia sino alla data di cessazione prevista nei relativi accordi.

LAVORO ACCESSORIO
Sempre nell’ambito del riordino delle tipologie contrattuali in esame, il Governo ha rivisitato la disciplina sul lavoro accessorio (per lo svolgimento di attività retribuita, con importi annui massimi predefiniti, mediante voucher), attualmente disciplinata agli artt. 70-73 del D.Lgs. n. 276/2003, che verranno abrogati (art. 46) a seguito dell’entrata in vigore del decreto approvato lo scorso 20 febbraio.
Nelle nuove previsioni, ed in particolare all’art. 51, viene incrementato da 5 mila a 7 mila euro il limite massimo di compenso che uno stesso soggetto può complessivamente percepire da più committenti nel corso di ciascun anno civile (non più solare); rimane fermo, invece, a 2 mila euro il compenso che lo stesso soggetto potrà percepire, nel medesimo periodo, da ciascun singolo committente, imprenditore o professionista. E’ stato, inoltre, precisato che il lavoro accessorio potrà essere utilizzato per lo svolgimento sia di attività di lavoro subordinato che di attività di lavoro autonomo.
Risulta ancora da segnalare come sembrerebbe divenire permanente la previsione, precedentemente introdotta in via sperimentale per gli anni 2013 e 2014, in forza della quale i percettori di strumenti di sostegno al reddito possono svolgere nel corso di ciascun anno civile prestazioni di lavoro accessorio nel limite complessivo di 3 mila euro senza incorrere in decadenze ed incompatibilità.
Viene, infine, espressamente disposto che non si potrà ricorrere al lavoro accessorio “nell’ambito della esecuzione di appalti”, salvo non ricorrano specifiche ipotesi derogatorie individuate in un apposito provvedimento ministeriale da emanarsi entro 6 mesi dall’entrata in vigore del decreto in esame.

MUTAMENTO DELLE MANSIONI
Particolare rilevanza assumono, infine, le previsioni (art. 55) di riforma dell’art. 2103 del codice civile, in forza delle quali viene ad essere legittimata l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di un livello di inquadramento inferiore in presenza di una modifica (riorganizzazione, ristrutturazione) degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione dello stesso lavoratore o nelle ipotesi che verranno ad essere appositamente individuate nei contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
In una simile ipotesi di modifica in pejus delle proprie mansioni, il lavoratore interessato manterrà, tuttavia, il proprio livello di inquadramento e il trattamento retributivo in godimento, perdendo semplicemente gli eventuali emolumenti correlati alle svolgimento di specifiche modalità connesse alla propria precedente prestazione lavorativa.
Occorre ancora evidenziare che, al netto delle ipotesi sopra richiamate, il lavoratore potrà comunque essere assegnato ad altre mansioni comunque riconducibili allo stesso livello di inquadramento, a prescindere dalla verifica dell’equivalenza delle stesse rispetto a quelle precedentemente esercitate. L’introduzione di un simile elemento di novità, finalizzato a scardinare un orientamento giurisprudenziale particolarmente ostativo all’esercizio dello jus variandi datoriale, dovrebbe permettere di assicurare alle aziende una più agevole gestione dei rapporti di lavoro in funzione delle esigenze della propria attività produttiva.
In proposito, è stato inoltre stabilito che, in sede conciliativa o di certificazione, potranno essere definite intese individuali che configurino una modifica in pejus delle mansioni, ma anche del livello di inquadramento e del trattamento retributivo, sempre che le stesse risultino finalizzate alla tutela dell’occupazione, alla acquisizione di una diversa professionalità o, ancora, al miglioramento delle condizioni di vita.
Particolarmente rilevante appare, infine, la previsione che, salve diverse previsioni contenute nella contrattazione collettiva di riferimento, permetterà di acquisire il definitivo inquadramento afferente alle mansioni superiori svolte solo dopo un periodo minimo di assegnazione alle stesse non inferiore a 6 mesi, contro i 3 mesi sinora previsti dall’art. 2103 c.c.. Tale effetto, che comunque non avrà luogo ove sussista una diversa volontà del lavoratore interessato, non si verificherà nei casi in cui lo svolgimento di mansioni superiori “abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio”.

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Provvederemo a fornirvi nelle prossime settimane ogni aggiornamento in ordine all’evoluzione dell’iter legislativo del suddetto schema di decreto.