Dirigenti e licenziamenti collettivi

Il 21 ottobre scorso è stata definitivamente approvata la Legge europea 2013 bis, DDL n. 1533, recante disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea. Tale norma, ancora in attesa di pubblicazione, prevede all’art. 16 che, nel computo dei dipendenti (da licenziare) ai sensi dell’art. 24, L. n. 223/1991, debbano rientrare anche i dirigenti e, pertanto, estende anche a questi ultimi le procedure di informazione e consultazione sindacali relative ai licenziamenti collettivi.

La norma, inoltre, prevede l’inserimento nel richiamato art. 24 del nuovo comma 1- quinquies il quale, nel secondo periodo, stabilisce che in caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta per il datore di lavoro è stabilita una sanzione economica, ossia il pagamento in favore del dirigente di una indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

L’art. 16 pone così fine all’annosa questione concernente l’applicabilità delle procedure di licenziamento collettivo ai lavoratori con qualifica dirigenziale. In particolare, la norma è diretta ad adeguare l’ordinamento giuridico italiano all’ordinamento europeo, con particolare riguardo ai casi di non corretto recepimento della normativa europea.

Si ricorda, infatti, che la Corte di Giustizia Europea nella sentenza del 13 febbraio 2014, C-596/2014 aveva statuito che la Repubblica Italiana, avendo escluso, in base all’articolo 4, paragrafo 9, della legge del 23 luglio 1991, n. 223, la categoria dei “dirigenti” dall’ambito di applicazione della procedura prevista dall’articolo 2 della Direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998 era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2 della Direttiva medesima, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.

Secondo la Corte di Giustizia, la nozione di “lavoratore” ricomprenderebbe necessariamente anche la categoria dei dirigenti, sicché, la L. n. 223/91 risulta non conforme alla normativa sovranazionale laddove prevede che le modalità di consultazione con i rappresentanti sindacali di cui al combinato disposto degli artt. 4 e 24 abbiano come unici destinatari gli “impiegati, operai e quadri eccedenti”.

La Corte precisava ulteriormente che l’inadempimento dello Stato Italiano si realizzava proprio nell’indicazione restrittiva dei soggetti interessati dalle procedure di mobilità senza che il Legislatore avesse tenuto conto che la nozione di lavoratore di cui all’art. 1 della Direttiva 98/59/CE “non può essere definita mediante un rinvio alle legislazioni degli Stati membri, bensì ha una portata comunitaria”.

Tra le prime decisioni intervenute successivamente alla sentenza della Corte di Giustizia, si segnala la sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 426 del 5 aprile 2014 (allegata di seguito al presente articolo) che, affermando la natura interpretativa della sentenza dei Giudici comunitari, ha ritenuto la applicabilità immediata della procedura prevista dalla Legge n. 223/1991 ai dirigenti in base al principio della “interpretazione conforme al diritto comunitario” del diritto nazionale, affermando, altresì, che, qualora tali garanzie non siano rispettate, non è applicabile ai dirigenti la tutela di cui all’art. 18 della Legge n. 300/1970 (applicabile, come noto, solo nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio) ma, naturalmente, solo una tutela risarcitoria.

Tuttavia, a smentire la tesi dell’immediata applicazione della statuizione della Corte di Giustizia, è proprio il recente intervento normativo che conferma come detta sentenza abbia prodotto effetti soltanto nei confronti del legislatore nazionale e che, di conseguenza, in assenza di una normativa nazionale di recepimento che estendesse l’applicazione della procedura prevista dalla Legge n. 223/1991 anche ai dirigenti, non potesse trovare immediata efficacia nel nostro ordinamento nei rapporti tra imprese e dirigenti.

Cristina Petrucci