Mobbing: l’onere della prova grava sul lavoratore

Con sentenza n. 898 del 17 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che per “mobbing” si deve intendere una condotta del datore di lavoro che, in violazione degli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 c.c., consiste in reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e di persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore. In genere essa si concreta in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, nei confronti del lavoratore, con sistematici e reiterati comportamenti ostili, che assumono forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità di una condotta lesiva del datore di lavoro rilevano, pertanto, i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. È onere del lavoratore dimostrare il verificarsi dei suddetti elementi.