Procedimento disciplinare e principio di inammissibilità

La Suprema Corte, con la sentenza n. 2021 del 4 febbraio 2015, ha ribadito il principio secondo cui “il requisito della specificità della previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari, non è integrato dalla certezza dei fatti addebitati ma dalla idoneità della contestazione a realizzare il risultato perseguito dalla legge ossia consentire al lavoratore una puntuale difesa, ed a tal fine si richiede soltanto che la contestazione individui i fatti addebitati con sufficiente precisione, anche se sinteticamente, per modo che non risulti incertezza circa l’ambito delle questioni sulle quali il lavoratore è chiamato a difendersi”.

Del pari ha confermato il principio secondo cui “in tema di licenziamento disciplinare, la violazione del principio di immutabilità della contestazione non può essere ravvisata in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, occorrendo verificare se tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore”.

Sulla scorta delle anzidette regulae iuris, i Giudici di legittimità, con riguardo al licenziamento disciplinare intimato da una società di assicurazione per “presunti errori tecnici e formali” commessi dal dipendente addetto al centro liquidazioni del danno, hanno ritenuto che la prospettazione dei fatti fornita in giudizio dalla datrice di lavoro, ampliati rispetto a quelli contenuti nella lettera di contestazione disciplinare, non integrasse una indebita introduzione di fatti nuovi non previamente contestati ovvero l’attribuzione di una diversa e più grave valenza disciplinare, quanto una legittima attività di difesa volta a corroborare la prova della giustificatezza del licenziamento.