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LA CORTE DI CASSAZIONE PRENDE POSIZIONE SULLA DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE DEI CREDITI DEI LAVORATORI

Con la innovativa sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla delicata e controversa questione circa l’individuazione del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale dei crediti retributivi del lavoratore alla luce della modifica, per effetto della Legge. n. 92/2012 (c.d. “Legge Fornero”) e del D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. “Jobs act”), delle tutele avverso i licenziamenti illegittimi.

In particolare, la Suprema Corte, prendendo posizione per la prima volta su questo tema, ha statuito il principio secondo cui, il termine di prescrizione dei crediti del lavoratore, di cui agli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., per effetto delle suindicate riforme, non decorre più in costanza di rapporto di lavoro, ma dalla cessazione del rapporto stesso per tutti quei crediti che non fossero già prescritti al momento di entrata in vigore della Legge n. 92/2012.

Si rammenta che, in passato, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 63/1966, si era espressa sul tema anteriormente all’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970), escludendo la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro in ragione della particolare situazione psicologica (c.d. “metus”) in cui versa il lavoratore che avrebbe potuto condurlo a non esercitare i suoi diritti per timore di subire un licenziamento.
La giurisprudenza di merito si era già espressa in materia nel 2015 in senso conforme alla sentenza in esame (Trib. Milano n. 3460 del 16 dicembre 2015) affermando che il termine di prescrizione quinquennale dei crediti retributivi decorresse solo dalla cessazione del rapporto di lavoro e non in costanza di esso per i lavoratori dipendenti di un’azienda sottoposta alla tutela prevista dall’art. 18 St. Lav., come novellato dalla Legge n. 92 del 2012 (in senso conforme, anche Trib. Milano 16 dicembre 2015, n. 10803).
Tuttavia, il tema era ancora dibattuto in quanto la stessa giurisprudenza di merito aveva manifestato orientamenti di segno contrario (Trib. Roma 21 maggio 2018, n. 4125; Trib. Novara 10 luglio 2017, n. 282, Trib. Milano 14 giugno 2017, n. 1752).

In precedenza, la Corte Costituzionale con le sentenze n. 143/1969 e n. 174/1972, quest’ultima emessa dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, aveva affermato l’esistenza di un doppio regime di decorrenza della prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro, enunciando, così, il principio di decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti dotati di una “stabilità” reale garantita dalla tutela reintegratoria, dovendosi ritenere, più precisamente, “stabile” “ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.

Infatti, secondo la ratio di questo ulteriore principio espresso in materia, la stabilità del rapporto di lavoro escludeva che il lavoratore potesse trovarsi in una condizione psicologica di debolezza tale da indurlo a non esercitare i propri diritti, per cui il termine della relativa prescrizione poteva decorrere “anche” in costanza di rapporto di lavoro.

Con la sentenza in esame, invece, la Suprema Corte, ha rilevato come tale stabilità, a seguito delle varie riforme, sia venuta meno, in quanto la tutela reintegratoria, nell’ambito di applicazione dei diversi regimi sanzionatori di cui all’art. 18 L. 300/1970 novellato, avrebbe assunto carattere “eccezionale” e “recessivo” rispetto all’ordinario regime di tutela indennitaria, non costituendo più “la forma ordinaria di tutela contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

La ratio di questo ragionamento, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, si basa sul fatto che il rapporto a tempo indeterminato, successivamente alle modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012 e dal D.Lgs. n. 23/2015, essendo privo dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, nel senso sopra prospettato dal Giudice delle leggi. Infatti, come ritenuto da autorevole dottrina, la tipologia sanzionatoria non è più dipendente dalla dimensione aziendale (conoscibile ex ante), bensì da elementi (le causali del licenziamento) che, per definizione, non sono attuali né conoscibili nel momento in cui il lavoratore deve decidere se agire o meno per la tutela dei propri interessi: pertanto, per i crediti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della Legge n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Tuttavia, si noti come il principio espresso dalla sentenza in esame sembra trascurare le ricadute dei recenti interventi della Corte Costituzionale che, con riguardo al disposto dell’art. 18 comma VII Stat. Lav., hanno statuito, con la sentenza n. 59/2021, che quando il giudice accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve applicare la disciplina della reintegra, e con la sentenza n. 125/2022, la illegittimità della norma laddove ai fini della reintegra richiedeva che l’insussistenza del fatto fosse “manifesta”.
Le suddette pronunce hanno esteso in modo significativo l’ambito di applicabilità dell‘istituto della reintegra tenuto conto che, in tema di licenziamento per g.m.o., il diritto vivente aveva avuto modo di precisare che “pure la sola “impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse” – può determinare la sanzione reintegratoria di cui al comma 4 dell’art. 18 novellato” (Cass. n. 32159/2018).
Analoga tendenza si riscontra, poi, anche con riguardo al licenziamento per giustificato motivo soggettivo, tenuto conto che con le pronunce più recenti la Suprema Corte, consentendo al giudice, nella sua valutazione, un’interpretazione estensiva delle previsioni generali della contrattazione collettiva in materia di sanzioni conservative, ha superato il suo precedente e restrittivo orientamento secondo il quale, doveva essere applicata la sola tutela “indennitaria forte” di cui all’art. 18 comma 5 della L. n. 300/1970 in presenza di una tipizzazione da parte del C.C.N.L. degli illeciti disciplinari per i quali può essere irrogata una sanzione conservativa e ha affermato, pertanto, che il regime di tutela reale di cui all’art. 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori si applica anche nell’ipotesi in cui il contratto collettivo nazionale, indichi solo in via esemplificativa la condotta cui è associata la sanzione conservativa (Cass. n. 12745/2022; Cass. n. 11665/2022; Cass. n. 13063/2022)

Pertanto, occorre domandarsi se la tutela reintegratoria abbia effettivamente quel valore “recessivo” ed “eccezionale” proclamato dalla sentenza in esame, atteso che, secondo i Giudici di legittimità, la prescrizione decorre in corso di rapporto “esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso”.

Sotto altro profilo, da ultimo, si evidenzia che, applicando i principi espressi dalla sentenza in esame , potrebbero derivare conseguenze economiche rilevanti a carico dei datori di lavoro, ai quali potrebbero essere legittimamente richieste le eventuali differenze retributive che non fossero già prescritte alla data di entrata in vigore della Legge n. 92/2012, qualora il rapporto di lavoro sia ancora in corso o sia cessato da meno di cinque anni.